HTP (Hughes Turner Project) a Zigonia (Bergamo) 2004

Recensione di Francesco Colombo
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8 marzo 2004, festa della donna, festa del rock. Al Motion di Bergamo, un’occasione impedibile e unica in Italia per assaporare due storiche voci del rock: quella fiammante, corposa e lineare di Joe Lynn Turner e quella particolarissima, sottile ed esplosiva del bassista Glenn Hughes. Un’unione perfetta, un mondo unico e nuovo, un connubio sublime: è questa suggestione che elettrizza l’atmosfera ogni volta che questi due ragazzi cantano insieme. Di supporto ai due artisti, uniti nella sigla HTP, ci sono i FireTrails di Pino Scotto, storica voce dei Vanadium. I FireTrails propongono alcuni pezzi del loro lavoro discografico, e poi alcuni classici dei Vanadium.

C’è da dire che l’acustica del luogo non è ottima, aggravata anche da una certa potenza di suono dei cinque, dal volume altissimo e da un mixaggio infelice. Problemi non completamente risolti, a dire il vero, nemmeno quando Hughes e Turner calcano il palco: nonostante il suono non sia confuso o soffocato, il volume troppo alto spesso distorce i suoni più acuti, provocando anche un forte fastidio alle orecchie (almeno per quanto riguarda le prime file). I due cantanti entrano in scena verso le 22 e 30.

Tra le ovazioni di un pubblico di appassionati, oserei dire “di nicchia”, i musicisti iniziano a percuotere i loro strumenti, creando una breve introduzione per il pezzo che apre la serata; si tratta di “Hold On”, tratto dal nuovo “HTP 2”. E’ un buon brano di hard rock, in cui, a turno, i due vocalist possono esprimersi in tutte le loro caratteristiche, per poi unirsi e decollare nel ritornello corale. Segue a ruota “Can’t Stop Rock’n’Roll”, una sorta di anticipazione dell’operazione revival che sarà la colonna portante dell’intero show. Con “I Surrender”, Joe Lynn (“Sono – tuto – Italiano”) si scatena, e ci fa scatenare, ricordando i tempi andati dei Rainbow.

Seguono altri pezzi nuovi, come “Alone I Breathe” o “Losing My Head”, durante i quali si incominciano ad avvertire le prime grattate ai timpani e si avverte qualche segno di cedimento da parte della prestazione di Joe, probabilmente indisposto fisicamente. In effetti, nel complesso, lo show è stato monopolizzato dall’alchemica ugola di Glenn Hughes, e dalle paralizzanti vibrazioni dei colpi di plettro sul suo Fender Jazz.

Quando Turner gli lascia la scena, e il biondo chitarrista J.J. Marsh incomincia a sputare fiamme dalla Stratocaster, capiamo tutti che la band ci sta preparando a qualcosa di sensazionale. Infatti, Glenn trasforma il maestoso blues “Mistreated” da lamento a invocazione, da sofferenza a libidine. Inebriato dalle sue stesse grida, Glenn torna per un attimo con i piedi sul palco: da solo, con la sua voce e lo strumento che oscilla davanti a lui, accompagnato da poche note di tastiera come sfondo, libera la sua anima con una serie di reinterpretazioni vocali del tema principale di Mistreated, in un commuovente finale soul / black. Torna sul palco per un attimo anche Turner, per cantare “Street Of Dreams”, ma è solo un flebile arcobaleno in mezzo a una tempesta di porpora. La band attacca subito con “Gettin’ Tighter”, in memoria di Tommy Bolin (“Un mio fratello, ma anche un vostro fratello, perché voi Italiani siete gente carica di passione” – Glenn Hughes), durante la quale il basso dialoga abilmente con la batteria di Tomas Broman, rincorre gli accordi funky di J.J. e si diverte con il wah-wah.

La band intona anche la californiana danza per il rock’n’roll, come intermezzo. Una breve parte solista di basso fa da ponte per la canzone successiva, sempre di memoria boliniana: “You Keep On Moving”, per la quale l’assenza di una seconda voce è stata davvero una pecca. Spunta di nuovo da dietro le quinte Joe Lynn, che raccoglie gli applausi mentre si inseguono le martellanti note di “Death Alley Driver”.

Intanto, Glenn fa cambio di basso (passa a un Vigier con disegni e nome aerografati in stile psichedelico), probabilmente per un guasto meccanico al suo maltrattato Fender. Gran finale con “Stormbringer”, cantata a sorpresa anche da Joe, che se la cava davvero bene.

Passano pochi minuti, e la band torna sul palco. Joe ringrazia il pubblico per il sostegno con un grande inchino. Il bis è aperto da “Devil’s Road”, partorita dalla mente di entrambi i musicisti. Poi tocca a Turner stare sotto i riflettori (“Spotlight Kid”); infine, ancora una volta insieme, i due infiammano la platea con “Burn”. Un concerto memorabile, soprattutto per la grinta dei due cantanti e per il succoso repertorio di brani proposti dalla band.

Peccato per il brutto suono dell’impianto, che ha, di fatto, mutilato il gruppo del tastierista, e ha costretto decine di persone a seguire il concerto con le orecchie tappate… …personalmente, mi è davvero piaciuto farmi violentare i timpani dalle urla di Glenn!

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