Come Taste the Band

Recensione di Giuseppe Lanari
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Ebbene sì, la notizia è sicura, Ritchie Blackmore ha lasciato i Deep Purple! Le sue dichiarazioni riguardanti la direzione musicale intrappresa dal gruppo (“non mi piace la black music, e in Stormbringer ne abbiamo suonata troppa, dal prossimo LP si torna al rock’n’roll”), non lasciavano molte speranza ad una riconciliazione nei confronti degli altri 4, il responso al suo Lp solo è stata la molla a farlo decidere. Ora nel suo futuro c’è una band chiamata Rainbow. Cambio della guardia, dunque, ed ecco balzare agli onori della cronaca un semi-sconosciuto chitarrista 24enne, americano di origine e orientato verso il funky-jazz (sempre se esiste un tale genere).

Non è propriamente venuto dal nulla, infatti vanta un curriculum di tutto rispetto, avendo suonato in “Spectrum” di Billy Cobham e nella James Gang di Joe Walsh, e la sua giovane età ben si concilia con i gusti dei “nuovi” arrivati nei Deep Purple. La copertina del LP è piena di foto molto belle e all’interno, la busta del vinile riporta tutti i testi, invero molto corti come la durata media delle canzoni.

L’intro di CTTB, Comin’ home, è un tuffo nel passato e non fà gridare alla novità. Sembra infatti di sentire l’inizio di Hard lovin’ man, ma subito dopo la musica si sviluppa in una sequenza di accordi più melodica. Il cantato di Coverdale si apre in un rock’n’roll tiratissimo, il cui testo scomoda (ma senza irriverenza) alcuni mostri sacri della storia del rock, fino al ritornello molto melodico a più voci.

Il nuovo arrivato si presenta subito con un lungo assolo, accompagnato da un solo accordo (Mi, con variazione in Sol), che punta a non farci rimpiangere Ritchie. Diciamo che il tentativo non riesce del tutto, mentre il coro in dissolvenza ci prepara al secondo brano. Di Lady Luck, mi colpiscono subito un paio di cose: l’incedere duro ma cadenzato da accordi in levare (Reggae?) e la partecipazione di un certo Crook alla stesura del brano. Anche in CTTB, i Deep hanno deciso di dare i credits ai principali autori, continuando la tradizione inaugurata in Burn, e non posso non notare l’assenza della firma di Jon Lord in quasi tutti i titoli del disco (largo ai giovani dunque, anche perchè l’altro veterano, Paice, compare solo nel titolo di testa).

La struttura molto semplice del brano, viene comunque esaltata dal cantato di Coverdale, molto grintoso e “solista” nel vero senso della parola, mancando infatti gli interventi di Glenn Hughes che caratterizzavano quasi tutti i brani dei precedenti lavori. Molto bello il solo in slide di Tommy Bolin, mentre Lord si riserva il compito di tranquillo accompagnatore. Glenn, partecipa ai cori e accenna alcuni passaggi in slap con il basso, superando tutte le linee di confine tracciate dal più tradizionale, seppur indinspensabile, basso rock suonato da Roger Glover.

Quasi a ribadire che però lui, come cantante solista, è vivo e vegeto, Glenn Hughes ci regala uno dei capolavori del disco. Firmata da Bolin e dal bassista-cantante, Gettin’ Tighter rappresenta un vero e proprio salto nel futuro, che taglia i ponti con il passato dei Deep Purple catapultando il gruppo in un rock che perde le connotazioni blues di Machine Head ma che non assomiglia a niente di mai sentito prima. Con un cantato da manuale, il secondo ritornello ci spedisce dritti, dritti in una sezione strumentale che, in un orgia di ritmi e percussioni, dà l’occasione a Tommy Bolin di sfoggiare uno dei più bei soli del disco (invero supportato da molte sovraincisioni). L’onnipresente ma discreto Lord, rispolvera il clavinet di “You can’t do it right”, ma non come mero doppione della chitarra, bensì con un senso della ritmica degno del miglior Stevie Wonder.

Un capitolo a parte meriterebbe Ian Paice, ma basti citare la sua versatilità che gli consente di cimentarsi in qualsiasi genere ed è già detto tutto! Con la linea funky ormai tracciata, Glenn ribadisce il suo amore per lo slap senza strafare ma “colorando” anche con il basso la sezione strumentale citata.I due successivi capitoli, meno innovativi, sono da citare per la parte cantata di Tommy Bolin in Dealer, che amplia le possibilità vocali del gruppo e per le proposte sonore (synth basso di Lord e il basso con wah-wah di Hughes) e il bell’assolo di Bolin in I need love.

Quasi a ribadire chi è il cantante solista del gruppo, Coverdale dà sfoggio delle sue consolidate qualita canore e compositive in Drifter. Il riff principale, basato su una sequenza alternata di soli due accordi, dà il “drive” al pezzo che è tutta una serie di ritmiche scomposte e complesse, sulle quali il cantato di Dave tesse una melodia blues molto coinvolgente. A spezzare tutto ciò viene inserito il ritornello, su una ritmica “galoppante” che ci conduce, dopo le tradizionali due strofe-due ritornelli, ad un bridge di un’atmosfera surreale che molto deve al feeling di Coverdale ed agli intrecci di slide suonata da Bolin.

Come un novello Re Mida delle tastiere, tutto ciò che Lord tocca (anche i due semplicissimi accordi che suona) diventa oro e con la tensione che cresce, il brano esplode nel finale infuocato al grido di “Rollin’ on!” Non c’è tempo per riposarsi perchè, con un sadismo tutto loro, i Deep Purple ci rifilano Love Child. Guidata da un riff che non ha nulla da invidiare ai riff di Ritchie Blackmore (ve lo ricordate verò? E’ il chitarrista che c’era prima di Bolin!), la song si sposta su un accordo di Fa cattivissimo che accompagna un cantato di Coverdale, la cui tonalità fà il paio con quella di Rock’k’Roll dei Led Zeppelin. Il testo è di una banalità orripilante ma … chi se ne frega! anche quì la tensione sale al massimo quando nello sciorinamento della terza strofa, Ian Paice “commenta” i vari passaggi con rullate micidiali, alle quali Hughes risponde con una delle sue svisate “strane” ma terribilmente efficaci.

Tutto sembra pronto per l’ennesimo assolo di Bolin, quando entra in campo un riff che “più funky non si può” e riscopriamo che Lord esiste! Assolo di Hammond? Macchè, il “signore” delle tastiere mette in tavola una assolo di synth, gelido nelle sonorità ma indubbiamente pieno di feeling. Qualcuno ha detto Lord? Rieccolo in accoppiata con Glenn Hughes, come novelli Burt Bacharach, che eseguono (Lord suona tutti gli strumenti) un altro capolavoro-novità di questa edizione dei Deep Purple. Certo non c’è David, ma sono sempre i Deep Purple.

Su una sequenza di accordi sognanti, la voce del bassista disegna una melodia destinata a divenire un classico. A mò di coda strumentale, viene aggiunta “Owed to G” del solo Bolin, che si sfoga con almeno sei-sette chitarre sovraincise, che aumenta la percentuale di sonorità jazz-rock presente nel disco. Decisamente il brano più atipico del disco.

La canzone che chiude CTTB, “You keep on movin'”, porta la firma dei soli Coverdale-Hughes. Su una linea di basso, semplice ed originale nel contempo, c’è un crescendo di tutti gli strumenti ad introdurre la melodia principale, dove le doti dei due singers vengono sfruttate prima all’unisono e poi singolarmente per il ritornello.

Da citare il tanto atteso solo di Lord all’Hammond, che anticipa quello decisamente più travolgente di Bolin che chiude la canzone.In definitiva, la nuova formazione appare convincente su disco e, anche se gli irriducibili riterranno insostituibile la figura di Blackmore, rimane solo da vedere i “nuovi” Deep Purple in concerto per sapere se anche sul palco sapranno mantenere alta la fama del gruppo.

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