Quel carattere oscuro…

Per decenni la maggior parte dei suoi detrattori lo ha etichettato come quel bastardo sempre triste, tentando di porre maggiormente in evidenza il lato del personaggio che meno si addiceva ai rapporti col pubblico. E, mantenendo quasi inalterata questa serie di aggettivi, il Blackmore pioniere nei Deep Purple, capocarro nei Rainbow, figliol prodigo ancora nei Purple dell’85 ed infine recidivo di nuovo coi Rainbow, è arrivato alla materializzazione di questa nuova quanto controversa opera sonora.

Se da un lato, dicevamo, il suo carattere non sempre avvezzo al sorriso lo ha marchiato in maniera spesso negativa, nulla si può invece dire della figura integra di chitarrista scelto che il nostro Ritchie è riuscito a conservare e a proporre lungo un percorso trentennale costellato di successi secchi ma anche di notevoli contraddizioni.

…e l’immagine del Man In Black

Chi ricorda ad esempio il viso emaciato da hippy del primo Blackmore, quello che assaggiava il parziale successo sull’onda di un hit, “Hush”, ancora oggi ricercato da molti gruppi (vedi i Kula Shaker)? Oppure lo stanco protagonista della lenta agonia Deep Purple nella metà degli anni settanta? O la faccia tirata del classico dittatore, capace di incidere sette dischi coi suoi Rainbow cambiando continuamente elementi del proprio organico?

Di sicuro l’immagine che ai più è rimasta ben stampata nella mente è quella di un uomo vestito di nero su un palco, a capo chino e con in braccio una Stratocaster bianca.
E questo perché, al di là di ogni considerazione più o meno gratuita sul personaggio, è la soluzione fluida della musica a prendere sempre il sopravvento, qualunque sia lo “status operandi” in cui è collocato il nostro protagonista.

I primi Deep Purple: un periodo non facile

Dicevamo dei primi Deep Purple, quelli appunto di Shades of…, The Book Of Taliesyn e dell’omonimo terzo lavoro. A cavallo di questo periodo Blackmore aveva iniziato a lavorare in un contesto sonoro differente dai soliti canonici temi pop, con coinvolgimenti sofisticati in simbiosi con l’aggressività di un altro suo collega rivale di squadra, quel Jon Lord tastierista dalle idee chiare e contro le quali ogni tanto andavano ad urtare le esuberanze del giovane Ritchie.

Nonostante quello che è stato scritto e detto, non fu un periodo facile per Blackmore: la mancanza di una direzione precisa del gruppo nella cornice after beat dell’Inghilterra di quegli anni, unita ad una formazione che egli non amava (Simper ed Evans furono spesso in procinto di andarsene anzitempo), portò il chitarrista ad una crisi di identità musicale.

Anche l’innesto di Ian Gillan e Roger Glover non lo aiutò granché, in quanto il primo parto della nuova band fu quello strano sodalizio artistico con la Royal Philarmonic Orchestra di Londra, voluto intensamente da tutti, Lord in testa, ma non certo approvato con entusiasmo sia da Ritchie che dal pubblico, sempre più disorientato da questi lodevoli ma altrettanto inutili esperimenti sonori tanto in voga in quel periodo.

Il teso dualismo tra chitarra e tastiera

Una parentesi: in una intervista di qualche anno fa, Iggy Pop affermava che in ogni band si formano due aree confinanti, ossia quella del vocalist e quella del chitarrista, in netto contrasto fra loro in quanto entrambe desiderose di catturare il predominio in modo da trarne poi vantaggi durante il periodo delle composizioni. E questa affermazione dell’ex Stooges si può tranquillamente abbinare alla situazione in essere nei Purple di quei tempi. L’unica differenza era che le due aree in antagonismo risiedevano fra tastierista e chitarrista, quest’ultimo oltretutto stanco delle operazioni combinate fino ad allora dall’anziano collega di lavoro. Deep Purple In Rock nacque ed immediatamente esplose in questi particolari frangenti, quando cioè Blackmore, finalmente appoggiato dalla maggioranza, riuscì ad imporre il suo suono preponderante unito a canzoni memorabili.

La forgiatura del suono con Deep Purple In Rock

E la cosa funzionò. I Purple cominciarono da lì in avanti a parlare la lingua dell’hard rock in una micidiale mistura di potenze raffigurate oltre che dalla Fender anche dal caro, vecchio, pesantissimo organo Hammond (opportunamente modificato in maniera quasi ‘hendrixiana’ da Lord), da un Glover bassista di grande spessore musicale ed umano, da un Ian Paice batterista prestante e ricco di geometrie e da un Ian Gillan vocalist di indubbie doti. Ma la sostanza di base era la sonorità di Blackmore, il suo modo di tirare le corde, l’uso pressoché continuo della leva negli assoli e la personalità ancora una volta efficace nel trascinarsi dietro la band. E “Speed King” è un po’ l’effigie sonora di quest’opera violenta e granitica, che segnerà indelebilmente il sentiero della band diventato improvvisamente autostrada a più corsie.

Un leader taciturno

E su questo rettilineo il gruppo sfreccia in un business di tour, apparizioni, interviste che impegnano appassionatamente tutti… all’infuori del solito Ritchie, sempre più preso nella dimensione di leader tacito e taciturno con la testa sempre oltre. L’oltre del gruppo si chiama Fireball, e pur essendo comunque un buon lavoro d’insieme non morde come il precedente, e presenta una chitarra a tratti più ovattata, più intima di quanto non fosse stata nel monolitico In Rock.

Nelle poche interviste rilasciate ai tempi Blackmore si riteneva comunque soddisfatto, anche in relazione al buon feeling che si era finalmente creato in seno al gruppo. A questo proposito va citato che l’idea per l’introduzione rumoristica di “Fireball” fu opera proprio del chitarrista: “In studio faceva un caldo umido, così decisi di accendere il condizionatore. Rimasi colpito dal rumore del compressore in partenza, sembrava un missile sulla rampa di lancio…”. Così venne svelato il famoso intro della canzone omonima.

Il disco vendette bene, ma si capì subito che molto era dato dalla forza d’inerzia innescata dal fantastico lavoro precedente, e questo non piacque a nessuno. A fronte di ciò il gruppo, dopo il tour seguente che comprese anche gli incidenti di Montreux citati nella futura “Smoke On The Water”, si ritira in una clausura svizzera per concentrarsi su Machine Head, che risulta come il seguito ideale non di Fireball ma del solido In Rock. Pochi voli pindarici e l’essenza dell’hard gettata lì sul tavolo come futuro progetto dal vivo. La soddisfazione per il nuovo centro del gruppo risiede innanzitutto nella facile trasposizione live, cosa che piace molto a Ritchie perché gli consente di aumentare il suo raggio d’azione ponendosi come vero fulcro della band al momento di apparire davanti ai riflettori. Il suo modo di elaborare i propri segmenti di chitarra senza mai prevaricare i colleghi lo consolida nel ruolo di elemento predominante, senza nulla togliere al resto dell’ensemble.

Made in Japan

Dalle fatiche di un tour mondiale estenuante scaturisce uno dei dischi live più consacrati di tutti i tempi, quel Made In Japan spesso autocelebrativo ma perfetto nel condensare il sudore di uno show sul piatto di un comune giradischi. Più che un episodio da leggenda il lavoro è il testamento di un tour mondiale pesante e stressante, concluso tra mille fatiche in un contesto praticamente continuo di apparente serenità. Difficile tenere unite cinque vere “teste pensanti”, ed ancor di più se fra loro c’è chi mal sopporta anche il minimo cedimento, sia esso di natura musicale o personale.

Umori e malumori

Blackmore, e qui dobbiamo sottolineare purtroppo, appartiene a quella categoria di persone che non sanno distinguere la tanica dell’acqua da quella della benzina in caso di incendio, e i suoi malumori si rifletteranno subito nel seguente Who Do We Think We Are, progetto deludente per contenuti ma anche per un certo sintomo di svogliatezza generale: pensate che durante i sei mesi di permanenza in uno studio segreto vicino a Roma venne realizzata la sola “Woman From Tokyo”!

Ronnie James Dio

La morale della faccenda fu l’allontanamento, seppur volontario, di Gillan e Glover, a favore del semisconosciuto vocalist David Coverdale e dell’eccentrico ex Trapeze Glenn Hughes. Il primo punto del nuovo programma prevedeva un album da mettere insieme in velocità e possibilmente di buoni contenuti. E arrivò Burn come conferma delle capacità ancora semi intatte di riuscire a produrre discreti brani hard rinnovando un poco anche il suono tipico di base.

Ma fu durante le session del successivo Stormbringer che Blackmore cominciò, prima in sordina e poi con toni decisamente più autorevoli, a virare verso una direzione quasi parallela. Avendo conosciuto, alcuni anni prima a New York, il cantante Ronald Padovano (o Ronald James Padavona) di una band chiamata Elf, Ritchie era rimasto sensibilmente incuriosito dalle capacità vocali e carismatiche del medesimo, cosicché quando la sua idea di inserire in Stormbringer la cover di un vecchio hit dei Quatermass, “The Black Sheep Of The Family”, venne boicottata dagli altri Purple, il chitarrista decise testardamente di inciderla come 45 giri per conto proprio richiamando Padovano (nel frattempo diventato Ronnie James Dio) e gli altri Elf. Il progetto prevedeva anche la registrazione di tutti quanti i brani del chitarrista precedentemente scartati dalla band, in modo da creare un vero album solo.

Detto album venne compilato proprio alla vigilia del tour europeo dei Deep Purple, tour che di fatto si risolse in una debacle visti i rapporti già tesi all’interno. All’indomani del disastroso show del 7 aprile ’75 a Parigi (parzialmente documentato sul live Made In Europe), Ritchie Blackmore annunciava ufficialmente il distacco dal gruppo ed automaticamente la nascita dei Rainbow.

Rainbow Rising

La nuova band comunque non suonò mai dal vivo, visto che nel giro di pochi mesi tutti i gregari dell’ex Purple si allontanarono volontariamente, ad eccezione di Dio, e anche a questo proposito esistono versioni discordanti. Non si trattava di musicisti eccelsi, d’accordo, ma i progetti molto ambiziosi del chitarrista sommati al suo acquisito (o soltanto acuito) alto livello di comando si scontrarono ben presto contro il comune senso di inferiorità dei suddetti colleghi. Toccò subito cercare altre forze all’altezza, e vennero l’ex Harlot Jimmy Bain al basso, Tony Carey alle tastiere ed il tellurico Cozy Powell alla batteria. La risultante dei primi veri sforzi del gruppo fu il magistrale Rainbow Rising, dove il duo Blackmore/Dio apparve immediatamente come uno dei connubi artistici maggiormente indovinati sulle scene rock.

La guerra fredda

Il conseguente tour consolidò le opinioni generali che vedevano finalmente una pace interiore sempre anelata ma mai veramente trovata da parte di Ritchie, e questo valse anche per la sua vita privata. Il doppio On Stage che ne consegue non riesce però ad infiammare gli animi come vorrebbe, ed anche il mercato purtroppo non risponde in maniera confortante. Questo fa sì che i raggiunti equilibri perdano di consistenza, ed il primo a farne le spese è Bain, seguito quasi all’istante da Carey. Blackmore corre ai ripari con l’ex Uriah Heep Mark Clarke, ma il problema tastiere rimane difficile da risolvere, al punto che alla vigilia delle registrazioni del terzo Long Live Rock’n Roll si vede costretto a richiamare Tony Carey per una prestazione a tempo determinato.

Ma la guerra fredda non è finita, perché durante le session francesi del disco esplode l’insoddisfazione del ‘capo’ nei confronti dell’operato di Clarke, quindi un calcio nel sedere anche a lui ed avanti con le parti di basso interamente incise dal leader in persona. Il disco risultò più commerciale dei precedenti e rappresentò una perfetta transizione fra il primo periodo del gruppo e la seconda e maggiormente complessa fase artistica. Il problema dei ricambi si risolse con l’innesto di Bob Daisley al basso e David Stone alle tastiere, ma fu una soluzione dai risvolti molto precari. Infatti durò soltanto il tempo di un tour e culminò nella fuoriuscita anche di questi due musicisti.

E Ronnie James Dio? L’antagonista per eccellenza ed amico/nemico del “man in black” stava anch’egli meditando l’abbandono: il totale disaccordo con la strada più easy intrapresa dal comandante, l’impossibilità di lavorare in un gruppo sicuro e la continua rotazione degli artisti in seno alla band furono i fattori determinanti della rottura definitiva.

Glover, Airey e Bonnet

Blackmore, ancora una volta, si trovava ad affrontare un futuro buio, senza una band definitiva, senza una corresponsione di mercato accettabile e senza una direttiva musicale precisa. Nonostante l’aria di crisi fosse pesante sul suo capo, egli tirò fuori l’asso dalla manica, contattando l’ex Purple ed ora fresco produttore Roger Glover, il quale accettò di buon grado mettendosi subito al lavoro col vecchio amico.
Reclutati Don Airey alle tastiere ed accettato il ruolo di bassista fisso, Glover iniziò le audizioni per un cantante. La scelta comune cadde su Graham Bonnet, un singer con i capelli pericolosamente corti ed un viso che nulla aveva da spartire con quello del tipico frontman rock. Con la nuova formazione venne fuori Down To Earth ed il singolo “Since You’ve Been Gone” che risollevarono in un baleno le quotazioni del gruppo, soprattutto sul mercato americano. Molto aperto musicalmente e di facile assimilazione, il disco entrò in classifica anche in virtù di “All Night Long”, secondo singolo della compilation. Il tour seguente servì a salutare il batterista Cozy Powell, uno dei pochi ad aver lasciato Blackmore senza dover alzare la voce, e culminò con l’headlining al primo Monster of Rock del Castle Donington, in Inghilterra, nel 1980.

Ancora una volta c’era un membro da sostituire, e Ritchie puntò gli occhi sul giovane Bobby Rondinelli, ma l’ennesimo problema d’organico incombeva già alle spalle del chitarrista. Infatti Graham Bonnet, che non aveva mai amato Blackmore ottenendo in cambio la perfetta reciprocità della situazione, meditò di incassare la sua parte ed allontanarsi repentinamente.

L’era Turner

Questa, a onor del vero, non fu una vera sorpresa, perché mai si era assistito ad un sodalizio tanto anonimo da rasentare l’indifferenza, come appunto fra Ritchie e Bonnet. Si arrivò dunque al reclutamento dell’ex Fandango Joe Lynn Turner per le sessions del seguente Difficult To Cure, opera contraddittoria e sintomatica della nuova crisi espressiva incombente sulla band.

Sul fronte dell’attività concertistica invece il culto nei confronti dell’ex Purple non registrava segnali di cedimento, anche se la figura di Airey cominciava a sbiadirsi ed a macchiarsi di svogliatezza. Dall’altra parte invece Blackmore poteva vantarsi di aver finalmente trovato un cantante capace di stare in scena e di non vivere soltanto in funzione delle proprie corde vocali.

E proprio questa fase di transizione porta all’allontanamento di Airey a favore del giovane Dave Rosenthal, mentre tutto il nuovo gruppo si ritira per lavorare sul rilancio delle qualità compositive appannatesi durante l’ultimo periodo. Con Straight Beetween The Eyes Blackmore riconquista i propri fans ma non il grosso pubblico, ed è l’inizio dell’ultima crisi personale sotto la bandiera dei Rainbow. Frustrato dal mancato successo, indeciso sul da farsi e disilluso dagli eventi, Ritchie licenzia Rondinelli, chiama Chuck Burgi e registra l’ultimo capitolo della saga Rainbow, Bent Out Of Shape. Nonostante i lodevoli contenuti del lavoro, all’indomani della sua uscita Blackmore contatta Gillan per il progetto di reunion dei vecchi Deep Purple. È la fine dei Rainbow.

Riflessioni sulla fine dei (primi) Rainbow

Ritchie Blackmore nell’arco di otto anni aveva cambiato cinque tastieristi, quattro batteristi, tre cantanti e cinque bassisti. Quali conclusioni si potevano trarre da esperienze come queste? È stata tutta colpa della propria tensione caratteriale di base o sono intervenuti altri agenti esterni?

La verità, si dice, di solito sta nel mezzo, ma nel nostro caso si è portati a pensare che questa instabilità cronica sia stata causata più da incomprensioni interne piuttosto che da divergenze artistiche o musicali.

Quando si ha a che fare con personaggi notoriamente “difficili”, o si cerca di instaurare un tipo di rapporto che preveda il chinare il capo in continuazione oppure si finisce per mediare ogni situazione nel buon nome del successo. Il punto dolente è quando quest’ultimo viene a mancare o anche solo a rivelarsi inferiore alle aspettative: in questi momenti allora deve venire fuori la forza di coesione, quella che ti consente di fare quadrato e di andare avanti sacrificando tutte le energie disponibili. Ma se il leader è un personaggio che non ha mai fatto sentire il proprio peso o quantomeno manifestato un po’ di carisma, al di là delle grandi doti musicali, allora ecco che gli schemi tendono inevitabilmente a saltare, col conseguente sacrificio dei più deboli dell’organico.

Questo può essere in sintesi quello che è capitato ai Rainbow, band di altissimo potenziale ma di fatto un non gruppo con un leader a metà.

Il Blackmore della reunion (1984-1993)

Il Blackmore dell’ultima formazione Purple, da Perfect Strangers a Come Hell Or High Water, è sembrato un signore di mezza età abbastanza inquadrato e senza grosse velleità di sperimentazioni solistiche, come parzialmente confermato da Roger Glover in una recente intervista: “Avevo visto Ritchie finalmente felice come non mai, e la cosa aveva portato beneficio a tutti noi. Ora però che se ne è andato ho capito che il suo carattere non gli permetterà mai di accasarsi, o anche solamente di mettersi quieto”.

Il saggio Glover, che meglio di tutti ha conosciuto Blackmore, ha forse detto la verità assoluta, e che forse si ricollega in qualche modo ai due aggettivi di inizio articolo, intesi però non come offesa ma come tranquilla constatazione di un carattere particolare, come particolare è stato e sarà sempre il suo modo di trasmetterci vibrazioni uniche.