Ritchie Blackmore, intervistato da Mauro Salvadori

0
417

Abbiamo volutamente evitato le domande scontate che tutti si sarebbero aspettati a proposito della sua ex band. Ritchie, come mai hai scelto di pubblicare questo nuovo album che, per chi ti conosce in versione elettrica, risulta a dir poco inusuale – È vero, si tratta di qualcosa che penso di avere nel sangue da tantissimo tempo, direi forse dai primi anni settanta; mi piace molto, da sempre, la “renaissance-music”, la ascolto tantissimo quando sono a casa, in realtà è l’unico tipo di musica che ascolto. So che può sembrare un po’ strano, considerando ciò che in genere suono, specie on stage, ma ascolto molto raramente rock & roll music. Anche quando faccio qualche party, tendo a proporre renaissance-music, e un sacco di miei amici la gradiscono molto; sembrano interessati quanto me e credo che in effetti abbia qualcosa a che fare con il rock & roll, c’è una specie di connessione di fondo, quella certa maestosità, l’intesità di certe progressioni di accordi, la passione: per me la musica deve essere molto seria, non ascolto musica leggera, oppure il country-western, invece la Renaissance-music richiede appunto molta attenzione.» Il progetto sembra molto coraggioso, parecchi fans ne saranno sorpresi – Suppongo di sì, ma forse per qualche fan sarà una sorpresa piacevole, considerando che è il tipo di musica che io amo di più, anche se non ho avuto mai la possibilità di suonarla in passato!» Come è cambiato il tuo approccio alla chitarra, visto che gran parte dei brani sono basati essenzialmente su sonorità e strumenti acustici? – Devo dire che ho trovato il passaggio alla chitarra acustica molto interessante, soprattutto perché è necessario suonarla con una certa intensità. Il bello del mondo acustico è che non puoi nasconderti dietro certi suoni, come invece può avvenire sull’elettrica, quando magari usi degli effetti, oppure alzi gli amplificatori per ottenere quel certo tipo di sustain, oppure degli echi con una acustica devi comunque tirare fuori il meglio ed ottenere il massimo come chitarrista, ti puoi esporre meglio, è molto interessante anche perché il suono in se stesso è più naturale ed impegnativo, non si tratta più di stare attento a problemi di rumori o feedback.» Hai dovuto in qualche modo cambiare, o reimparare la tua impostazione, dal punto di vista strettamente tecnico? – Non direi reimparare, anche se ovviamente ci sono cose da rivedere. Ad esempio alcuni gruppi di note sincopate, che io uso spesso, sull’acustica non suonano poi così bene. Un’altra cosa che non mi sembra adatta è il bending sai, è strano, ma ci sono certe note forse è il modo di sentirle al quale nel tempo ti sei quasi abituato sull’elettrica, anche se in reltà il mio approccio alla chitarra elettrica è sempre stato una via di mezzo, quindi per me passare alla chitarra acustica non è stato poi così difficile. Forse per uno come Jeff Beck, uno dei miei chitarristi favoriti, visto che suona molto spesso dei fraseggi più incentrati sul bending, magari il passaggio all’acustica potrebbe risultare più impegnativo, perché per ottenere quel tipo di bending su un’acustica bisognerebbe usare delle corde più leggere, cosa che causerebbe una perdita di quella sonorità corposa che invece si ottiene con una muta di corde più dure.» Hai usato di più il plettro oppure le unghie? – Sempre le unghie!» C’è stato qualche chitarrista che ti ha ispirato o influenzato in questa tua nuova fase chitarristica? – Certamente, c’è chitarrista inglese chiamato Gordon Giltrap: è stata un’influenza notevole, e poi è anche un buon amico; è un chitarrista bravissimo e mi ha ispirato particolamrente nel brano “Minstrel Hall”. Mi piace anche il suo modo di usare certi effetti, gli echi, certe riverberazioni. Un altro molto bravo è Leo Kottke, anche se è più country. » Cosa mi dici di quell’intro che esegui in “Ocean Gipsy”? – Si tratta di un brano che avevamo sentito quasi sei anni, fa quando andammo a visitare Annie Haslam, la cantante dei Renaissance» Stai parlando dei Renaissance formati a suo tempo da Keith Relf? [il primo cantante degli Yardbirds, scomparso diversi anni fa] – Esattamente, lei è una nostra buona amica e ci fece ascoltare quel brano; sa che io sono un suo ammiratore e così qualche tempo fa ci mandò un nastro in cui cantava appunto “Ocean Gipsy”, così abbiamo pensato che forse il brano poteva funzionare all’interno dell’album ed in effetti è andata proprio così.» Un brano molto diverso dagli altri è “Writing On The Wall – È vero, avevo in mente di farne una versione disco; però mentre la registravamo abbiamo pensato che poi forse non avremmo avuto l’opportunità di inserirla sul cd. Dopo averla incisa e finita, riascoltandola ci siamo detti: “forse può avere il suo posto sull’album” e in effetti, in modo molto strano, funziona, ha quasi il ruolo di interrompere per un breve tempo la continuità della musica del cd, si passa dalla tradizionalità dei primi brani, all’interruzione con quel brano più moderno per ritornare poi alla seriosità e la tradizionalità dei brani successivi. Quindi secondo me abbiamo fatto bene ad inserirla, anche se precedentemente avevamo addirittura pensato di pubblicarla separatamente, come un single.» Come hai composto il materiale dell’album? – “Shadows Of The Moon” era un brano che avevo composto come strumentale, ma poi Candice ha cominciato a cantarci sopra ed ho notato che funzionava sia come strumentale che come brano cantato, soprattutto dopo che Candice ha scritto il testo, e così ci siamo ritrovati ad avere un brano in due versioni: una strumentale e una vocale. Invece “Be Mine Tonight” è stato il secondo brano che abbiamo composto, lo abbiamo scritto con l’intenzione di scrivere e avvicinarci a uno standard, quelle vecchie canzoni degli anni venti, trenta, tipo “Moon River”, “The Last Waltz”, ed anche in questo caso lo abbiamo fatto per puro divertimento e ci è sembrato molto adeguato allo spirito del cd. Poi c’è “The Clock Ticks On” che è basato su un brano scritto nel 1500, da un grande compositore, Susato. Ci sono tre parti di melodia e una si riallaccia ad una sua cosa.» E quel brano strumentale “Memmingen”? – Si tratta di un brano che ho voluto scrivere per ricordare una serata che abbiamo passato in Germania tempo fa, partecipando ad una festa in costume medievale, con la gente del posto, cantando e suonando con i musicisti locali: è stato incredibile, sembrava di essere tornati indietro di cinquecento anni. È una mia composizione originale, non è basata su nulla in particolare!» Mi stai facendo venire in mente una cosa particolare. Prima stavi accennando ai Renaissance di Keith Relf: uno dei tuoi capolavori è stato quando hai ripreso “Still I’m Said” degli Yardbirds una coincidenza strana? – È vero, [con tono divertito] comunque “Still I’m Sad” era un canto gregoriano» Uno degli assoli più belli della tua carriera. – Ah, grazie! [con il tono di chi vuole subito cambiare discorso]» Come è iniziata la tua relazione professionale con Candice Night? – Ci siamo conosciuti otto anni fa; lei è una musicista molto preparata, suona il flauto e le tastiere, ha cominciato a cantare qualche anno fa e mi è sembrato interessante come sapesse interpretare le mie idee, cantarci intorno. Quando venivano degli amici con la chitarra la accompagnavo e anche se inizialmente lei era un po’ timida, gli altri hanno cominciato a chiederci perché non incidevamo su nastro quel materiale, così ci è sembrata una buona idea e circa due anni fa abbiamo cominciato a lavorare seriamente su queste composizioni.» Sul disco figura un grande ospite d’eccezione un flautista! – Ian Anderson: è stato così gentile da partecipare all’incisione, ma prima di tutto ci tengo a precisare che Ian è un mio buon amico da più di venti anni ed io sono un suo fan da sempre.» Gli hai suggerito come doveva suonare? In fin dei conti anche lui è molto coinvolto in certi tipi di musica. – È vero. No, non gli ho assolutamente suggerito nulla; innanzitutto gli ho detto: “Ian, anche se siamo amici non sei tenuto o obbligato a suonare sul disco”. In verità avevo paura che non gli piacesse il materiale e magari si sentisse forzato ad incidere, invece è stato a dir poco squisito: ha suonato esattamente al primo colpo proprio ciò che io desideravo, come se mi avesse letto nel pensiero, è stato bravissimo. In seguito ho saputo da amici comuni che lui avrebbe desiderato suonare anche in più brani: pensa, lui era timoroso a dirmelo ed io a chiederglielo. Stavo proprio dicendo a Candice qualche giorno fa, che se lo avessi saputo, pur di incidere ancora con lui in altri brani, avrei riscritto l’intero album.» L’episodio più interessante mi sembra “Mond Tanz”, è affascinante il suo andamento tipo danza del passato – Si tratta di quella che io chiamerei “Gipsy Music”: vicino al posto dove vivo io, a New York, c’è un’area molto grande dove, quando è notte di luna piena, la gente si mette a danzare all’aperto: è un’atmosfera molto tribale, molte percussioni e molta passione. Sai, gli zingari, la loro musica, e tutto ciò mi ha ispirato molto.» Una domanda inevitabile: hai ispirato una generazione di chitarristi, molti ti citano come il loro maestro. Qual è la tua opinione a proposito di tutto il tecnicismo in voga in questi tempi e dei chitarristi iper veloci oggi tanto di moda? – So che potrò apparire strano, ma in verità non ascolto poi tanto gli altri chitarristi, anzi cerco di mantenere il mio orecchio molto alla larga da certe musiche, e soprattutto cerco di mantenere i miei assoli semplici: esiste un certo tipo di semplicità di fondo nelle mie cose, e non soltanto il suonare veloce. Se uno suona sempre veloce, almeno per me, mi dà quasi l’idea che non sia poi così tanto sicuro di se stesso, preferisco più assoli sofisticati, lenti, dove qualcuno dice qualcosa di più significativo anziché dire “Hey, guarda!” e mostra la sua velocità; per me suonare veloci significa soltanto studiare otto ore al giorno e forse poi diventi veloce. Invece bisogna incorporare la tecnica con il feeling, ricordo che dai sedici ai ventiquattro anni cercavo di essere veloce ma poi quando andavo in studio la gente mi diceva: “Hey, perché non cerchi di suonare un po’ più lento?” Ed io rispondevo: “Va bene, hai ragione”, ma poi trovavo immensamente difficile andare su e giù per il manico e far venire giù una cascata di arpeggi. Il difficile è mettere dentro l’emozione, spesso con una sola nota ci puoi tirare fuori tutto il tuo cuore.

 

Cosa ne pensi?