Ma davvero i Deep Purple, giunti almeno al quindicesimo disco della loro produzione ufficiale, ad un passo dalle celebrazioni per il ‘trentennale’ che cadrà nel 1998 , sfornano un album talmente OTTIMO da etichettare con quattro stellette? Per onestà, non possiamo tacere che l’attuale Massimo Conoscitore italiano di cose purpleiane, Pericle Formenti, ha definito ‘Purpendicular’ “un brutto album suonato benissimo”. A noi invece suona sorprendentemente coraggioso, se non proprio innovativo. Liberi dalla plumbea cappa del chitarrista Ritchie Blackmore, lasciato Joe Satriani su altre spiagge ed ingaggiato il virtuoso Steve Morse (ex Dixie Dregs e Kansas), è proprio lui a rivelarsi carta vincente da giocare per rinnovare gli stereotipi dell’hard e dell’AOR in cui i Deep sono volentieri inciampati da dieci anni a questa parte.
Brani come Soon Forgotten, Loosen my string, The Aviator o Purpendicular Waltz rivelano tutto il bagaglio di influenze country, folk, jazz e romantiche che Morse ha accumulato nel corso di vent’anni.
Ai Purple queste novità vanno un po’ strette, però non si tirano indietro; al massimo, qua e là, si rifugiano nel duro rock riffato di Ted the mechanic o di Hey Cisco, e si concedono il lusso di parafrasare l’immortale ‘Lazy’ con l’esecuzione di un altro brano irresistibile, Rosa’s Cantina , tutto un pulsare di batteria, basso, armonica e Hammond.
Esploratori vecchi e nuovi: benvenuti nel nuovo mondo di Jon Lord e compagni!