Nato nel segno del pallone

Glenn Hughes nasce a Cannock (Staffordshire), nel centro dell’inghilterra, il 21 agosto del 1952.

Nel periodo scolastico, oltre ad essere appassionato di musica, è anche grande appassionato di calcio. Se non fosse diventato quello che noi sappiamo, sicuramente si sarebbe buttato nel gioco del pallone. È tuttora un grande tifoso del Wolverhampton (i Wolves, come è soprannominata la squadra), team che comunque non dà molte soddisfazioni a Glenn.

Le influenze, le prime band e i Trapeze

Da sempre amante del black e del soul, i suoi miti giovanili furono (e lo sono tutt’ora) Motown, Stevie Wonder, James Brown. Glenn muove i suoi primi passi da musicista in alcune band locali, tra cui Mail, News e Finders Keepers, fino al 1969 quando finalmente è coinvolto in una band un po’ più impegnativa: i Trapeze, insieme a Mel Galley e Dave Holland.

In effetti il primo album comprende anche altri due membri, Terry Rowley e Michael John Jones, ma il combo incide solo “Trapeze”, un disco variegato, di varie fusioni musicali.
Con il secondo album, “Medusa”, ecco che inizia ad evidenziarsi il misto funk rock che Glenn Hughes porterà avanti fino ai giorni nostri. Il disco contiene dei classici che ancora oggi Glenn ripropone dal vivo: Black Cloud, Your Love Is Alright, Touch My Life.

La voce di Glenn risulta essere immediatamente carismatica, ma la consacrazione arriva nel 1972, quando i Trapeze pubblicano “You are the music, we’re just the band”. Questo lavoro può essere considerato pionieristico per la fusione che riesce a dare al pubblico, un misto di rock classico e di funk, black e soul.

La voce di Glenn diventa quasi inarrestabile, ed ecco una serie di tour dove si registra sempre il tutto esaurito, specialmente negli Stati del Sud degli Stati Uniti.

Glenn nei Deep Purple

Molti personaggi già noti alle platee vanno a vedere questa nuova band, tra cui Jon Lord e Ian Paice dei Deep Purple, che spesso si recano al Marquee di Londra o al Whisky a Go Go di Los Angeles.

E così un bel giorno, dopo uno show al Marquee, Jon Lord chiede a Glenn di entrare nei Deep Purple.
È l’occasione della vita, e Glenn non ha dubbi in proposito nella scelta. Anche gli appena formati Electric Light Orchestra vorrebbero coinvolgere Glenn, ma non si può rinunciare ai già famosi Deep Purple.

Blackmore cerca due tipi di cantanti per cambiare leggermente rotta nello stile Purple, e inizialmente chiede a Paul Rodgers di unirsi alla band ma egli rifiuta e così sul Melody Maker appare un inserzione di un certo David Coverdale, di professione commesso di abbigliamento, e dopo i successivi provini ecco che nel luglio 1973 nasce la Mark III dei Deep Purple.

Burn e Stormbringer

Ed è subito “Burn”, a nostro parere un masterpiece di tutti i tempi. Qui si intravede anche lo stile Hughes in alcuni brani come “Sail Away”, ma per esigenze di contratto nel disco il nome di Glenn Hughes non appare come song writer.

L’esordio live della Mark III è in Danimarca, a Copenhagen, il 9 dicembre del 1973, seguito da un breve tour in Scandinavia, Belgio e Germania.

Il pubblico accetta di buon grado la nuova line up, e così si parte per il tour americano all’inizio del 1974. Nello stesso anno la band pubblica “Stormbringer”, e qui c’è il netto distacco dal vecchio stile Purple. Pezzi come “Love don’t mean a thing”, “Hold on” “Holy man” fanno arrivare nuovi fans amanti anche di altri generi musicali, ma mister Blackmore medita l’addio per chiare divergenze musicali, ed in piena rottura il tour finisce nell’aprile del 1975 a Parigi.

Il rapporto con Tommy Bolin

Ormai Blackmore ha in mente il suo nuovo progetto Rainbow, così i Deep Purple ora sono alla ricerca di un degno chitarrista che rimpiazzi “the man in black”.

E così, dopo aver interpellato alcuni chitarristi, tra cui anche Clem Clempson (ex Humble Pie), la scelta ricade su un americano, che ha già suonato con la James Gang, e addirittura in “Spectrum” di Billy Cobham. Il suo nome è Tommy Bolin.

L’intesa con Glenn Hughes è subito evidente e il seguente album “Come taste the band” risulta essere un capolavoro di funk rock, anche se molti dei vecchi fan abbandonano la band.

Questo disco è stato rivalutato forse troppo tardi, ma per conto nostro, se dovessimo scegliere i famosi dieci dischi da portarci su un’isola deserta, non avremmo nessuna esitazione a prendere questo tra i primi.
Il disco contiene brani assolutamente inossidabili come “This time around”, “Gettin’ Tighter”, “You Keep On Moving”. Ancora oggi nei concerti di Glenn Hughes sono pezzi che non possono mancare nella scaletta.

Purtroppo il tour del 1975 e 1976 coi Deep Purple è caratterizzato dai molti alti e bassi di Tommy Bolin. Tutto ciò è dovuto all’eccessivo consumo di droghe, e quindi l’avventura dei Deep Purple si conclude a Liverpool la sera del 15 marzo 1976.

La prima carriera solista, l’alcool e le droghe

Glenn e Tommy pensano anche di formare una loro band ma poi niente va per il verso giusto e così Bolin continua a suonare con una sua band e Glenn pensa ad un progetto solista. Progetto che si materializza nel 1977 con “Play Me Out”, un album di puro funk dove partecipano anche due vecchi amici di Glenn, Mel Galley e Dave Holland, oltre che a Pat Travers, Mark Nauseef e diversi altri artisti.

È un periodo abbastanza buio per Glenn, caratterizzato dal consumo di stupefacenti, ed infatti il successivo album “Four on the floor” del 1979 risulta praticamente sconosciuto al pubblico. Il disco e’ fondamentalmente un album sperimantale, e contiene anche delle tracce dei Rolling Stones.

Hughes/Thrall

Nel 1982 l’ unione con Pat Thrall produce “Hughes/Thrall”, che può essere considerato una pietra miliare nella carriera di Hughes. Il disco contiene pezzi funk rock al limite del commerciale, come “I got your number”, ma rimane comunque un capolavoro. Da ricordare anche la riedizione di “Coast to coast”, gia’ dei Trapeze.

Ora entriamo nel vivo della carriera di Glenn Hughes. Come già detto, il problema principale di Glenn in questo periodo sono l’ alcool e la droga. Ciò nonostante, a metà degli anni Ottanta partecipa in alcuni progetti a dir poco memorabili.

Phenomena

Nel 1985 dà la sua voce al progetto “Phenomena” co Ton Galley, Neil Murray, Cozy Powell, Mel Galley, John Thomas, Pat Thrall e molti altri. Il risultato è un concept album stupefacente, ai limiti della follia, carico di atmosfere a volte demoniache e a volte celestiali, il tutto dovuto alla bravura di tutti gli strumentisti ma sopratutto alla sua voce inimitabile. È impossibile dire quale può essere il brano migliore, è un susseguirsi di emozioni dall’inizio alla fine.

L’esperienza coi Black Sabbath

Immediatamente dopo va alla corte di Tony Iommi e dei Black Sabbath, reduce dall’esperienza con Ian Gillan durata solo lo spazio di una stagione.

Ed ecco un altro capolavoro, “Seventh star”, inizialmente cantato da Jeff Fenholt, poi ricantato da Glenn Hughes in maniera insuperabile. Cosa si può dire su pezzi come “Seventh star”, “No stranger to love” “Heart like a wheel”…

Purtroppo le cose non vanno molto bene nel successivo tour. Questo è dovuto ai problemi già citati da parte di Hughes, ma sopratutto ad un litigio con un manager. Costui colpisce Glenn con un pugno e questo gli provoca seri problemi alla voce. Glenn è costretto ad abbandonare il tour americano dei Black Sabbath dopo solo cinque date. Lo rimpiazza un suo caro amico, il compianto Ray Gillen, per la continuazione delle date in programma.

Altre collaborazioni

Nello stesso periodo Hughes registra un album con Gary Moore, dove canta quasi tutte le canzoni.
Lo stile è tipico del guitar hero ex Thin Lizzy, e il risultato non può che essere esaltante.

Negli anni successivi Hughes partecipa a vari show con John Norum e con Pat Thrall, oltre che in altri progetti come “Phenomena 2”, dove canta alcuni brani, “Dragnet”, colonna sonora del film omonimo.

Sobrietà e rinascita

È nel 1991 che decide che è arrivato il momento di cambiare vita. Basta droga, basta alcool. Hughes si rende conto che continuando così non ha più sbocchi, e allora mette una pietra sopra il suo passato molto travagliato.

Canta in un singolo dei KLF, “America, what time is love”, quasi dance, e la sua voce è inconfondibile; partecipa alla colonna sonora di “Highlander 2” con un brano, e incide con John Norum “Face the truth”, un grandissimo album di puro hard rock. Glenn canta otto pezzi, e qui si può sentire che la sua voce negli anni è sempre la stessa, anzi: forse è come il vino, invecchiando migliora.

Poi “Blues” del 1992, un altro saggio di straordinaria grandezza.

E ora la richiesta si fa pressante. Glenn partecipa a vari progetti e canta in molti dischi dove la sua presenza dà un tocco di magia. Vorremmo citare “Sacred groove” di George Lynch, “American Matador” di Marc Bonilla (dove canta la splendida “A whiter shade of pale” dei Procol Harum), “Electric Pow Wow” di Stevie Salas, “Amen” con Mark Storace e Manfred Ehlert.

From now on, Feel e Addiction

In mezzo a tutto questo pubblica “From now on”, il suo album solista della rinascita. Un capolavoro di classic rock, seguito dal tour europeo e giapponese in cui registra “Burnin’ Japan Live”, il massimo dei massimi di un album live.

Nel frattempo riforma i Trapeze per alcune date, poi nel 1995 incide “Feel”, con il suo vecchio amico Pat Thrall. Feel è completamente diverso da From now on, è funk rock, come piace a lui – come è sempre piaciuto a lui.

Seguono ancora vari progetti che si possono trovare nella discografia completa di Glenn Hughes Italia, e nel 1996 il nuovo album si chiama “Addiction”. Qui si torna al rock duro con influenze leggermente grunge.

Ora l’attività torna a essere molto proficua, e dopo tre anni di numerose partecipazioni in album di vari artisti ecco nel 1999 “The way it is”, un album ancora diverso, come ormai è nel suo stile. L’album alterna periodi abbastanza hard ad altri soul e melodici, come lui ci ha abituato.

Il tour vede prima Hughes in Sud America, poi in alcune date europee con Michael Schenker e Thin Lizzy. Tour denominato non a caso “Essence of rock”.

Il futuro

Il resto è qui, davanti a noi, sotto forma del nuovo album R.O.C.K. (Return Of Crystal Karma). Per il futuro, non ci resta che aspettare nuove sorprese dal nostro inossidabile “Omino bianco” del California Jam.

Questa biografia è stata pubblicata per la prima volta su glennhughesitalia.com