Deep Purple a Torino, Monsters Of Rock 1998

Recensione di Giulio Migotti Deep Purple Made In Italy
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Torino, 13 giugno 1998. Sono entrato al Palastampa alle 19.30, con al seguito un’adeguata scorta di birra doppio malto, e ho trovato posto in una zona centrale sulle gradinate alte dell’arena.

Già durante la fortunosa ricerca di un posto auto, tra la moltitudine di vetture contrassegnate dalle targhe di mezza Italia, si distingueva chiaro l’urlo dei decibel che faceva tremare l’asfalto.

Sul palco il cranio lucido dell’alieno Joe Satriani era preda immobile dei riflettori, mentre le mani percorrevano a velocità inaudita la tastiera di quel corpo nero dalla forma singolare così come originale era il suono prodotto. Le corde, trattenute con pressioni a scalare dalla mano sinistra e straziate dalla destra, lanciavano grida disperate. Ma non certo miglior sorte è toccata a quelle percosse da Uli Jon Roth e Michael Schenker quando, saliti sul palco per formare i G3, hanno aggiunto i loro accordi a quelli di Satriani, all’unisono!

Dopo i gruppi di Metal Hammer, in pedana sin dalle 13,00, la festa dell’Hard Rock non avrebbe potuto consacrarsi meglio: con il trionfo del divo Satriani e la portentosa session citata sopra. Alle 21.00 sono di scena gli idolatrati Dream Theater.

L’accoglienza è di quelle che si riservano ai Grandi. La band ha uno stage act efficace, e il loro Rock tiratissimo, dalle atmosfere cupe ma non privo di invenzioni jazz e spazi di fibrillazione melodica, dominato dal formidabile chitarrista John Petrucciani, merita il successo tributatogli dal pubblico. Intanto l’apoteosi era ancora li da venire. L’oscurità cala anche fuori dalle pareti del Palastampa, e i gruppi di giovani (e meno giovani) che avevano temporeggiato nei prati adiacenti, stesi a prender sole o calciando un pallone, beneficiando del suono propagato con veemenza anche all’esterno, raggiungono il sottopalco per assistere in piedi, o salgono a gremire le ultime poltroncine libere ai bordi degli spalti, esaurendo anche i dodicimila posti a sedere.

Terminata la performance dei Dream Theater, i roadie salgono sul grande palco (anche se un po ‘ troppo nudo) per il nuovo avvicendamento di amplificazioni e strumenti, e prima che riescano a montare tutto, buona parte dell’arena inizia a fischiare, battere i piedi ed a scandire forte “Deep Purple, Deep Purple”!

Ore 22.45: la pedana è inondata dalle luci viola; con l’ovazione provenuta dal pubblico concentrato nell’area bassa, si intuisce l’arrivo dei cinque e… Hush apre le danze.

Un Gillan dai pantaloni stretti ai testicoli (“sarà per questo che riesce a urlare in quella maniera” diceva bene Jon Lord in un’intervista) canta Bloodsuker e in Pictures at home un Morse grintosissimo raccoglie la sfida dei precedenti virtuosismi di Satriani e Petrucci. A seguire Strange kind of woman e Woman from Tokyo; tre brani di Abandon dove Morse, compositore, si destreggia in un arpeggio che incendia letteralmente la folla

A sorpresa arriva nel bel mezzo del concerto Smoke on the water: com’era prevedibile è il delirio! E l’enfasi in cui ci hanno scaraventati prosegue con Lazy e Speed King, in cui alternano gli assoli, Glover lo passa a Paice, Morse a Lord. E’ una danza! Gillan non si risparmia niente, un ragazzo di 53 anni che corre per il palco, grida e strozza con sapienza le ottave, percuote le pelli, suona l’armonica, duetta con Morse e si butta per terra.

Ma il gioco musicale più bello avviene fra il leggendario tastierista e il biondo guitar hero, gioco di bravura e di stage act istrionico, di spessore teatrale, che trascina la folla, sempre più rumorosa, e che coinvolge tutti i cinque: suonano e si divertono, la sintonia fra i musicisti è palpabile. Nel bis ripropongono Black Night e Highway Star.

E’ quasi la mezza quando Gillan saluta per l’ultima volta, Glover alza il basso, Lord e Morse si inchinano e Paice lancia le sue preziose bacchette.

Anche questa volta la festa è finita. Valeva la pena esserci. Già, mancava Blackmore, è inevitabile pensarlo, provarlo… lo avranno pensato (anche se non provato, ma soltanto immaginato) pure la marea di giovanissimi attratti dal “fenomeno porpora” quanto chi, seduto li a fianco, lo è da 20 o 30 anni prima.

Nessuno saprà mai restituirci il brivido prodotto dalla sua fender, nessun altro virtuoso le sue scale, nessun divo il suo divismo, il suo carisma: immobile e con gli occhi che si spostano veloci come le dita, o devastante contro gli amplificatori e le telecamere.

Soddisfano questi Deep Purple, prodigio di Gillan: è lui il direttore d’orchestra, ma l’adesivo è proprio Morse, il suo feeling sposa l’arte e il mestiere della band esaltandolo, tanto che persino il compassato Glover si trasforma in un indiavolato giullare. Insomma, il fenomeno porpora continua: da parte nostra è bene non perdere l’appuntamento.

Lascio defluire la massa, accartoccio quello che resta del mio litro e mezzo di birra, avvicino il palmo delle mani alle orecchie… e sento un fischio come quello delle locomotive a vapore. Prima di uscire mi avvicina un uomo che mi dice: “io un concerto così non lo avevo mai visto”, e si allontana senza neanche attendere una mia replica. Lo guardo andarsene da solo, di spalle, e torno a casa custodendo il significato delle sue parole.

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